mercoledì 24 luglio 2013

Con quegli occhi

Ecco. Io ho appena fatto una cosa che non potevo proprio tirarmi indietro.
Però le avrei dato uno schiaffone e poi portata a casa per curarla.
Con quegli occhi.

In stazione Principe.
Lei vestita di nero si guarda intorno smarrita in cima alle scale che portano ai binari.
Mi avvicino per scendere carica di borsa e zaino.
Ha qualche centimetro di braccio scoperto. Ha la circonferenza di un grissino. Bianco secco fragilissimo.
La vita spigolosa potrebbe misurare quanto due mele accostate.
I vestiti le pendono addosso e nascondono lo spettacolo impressionante delle gambe.
Accanto a sé una valigia rossa.
E rimane lì inquieta a guardare chi scende.
Poche persone, solo donne.
Ho capito.
Mi avvicino le sorrido e prendo la sua valigia precedendola sulle scale.
Mi segue docile e lenta.
Rallento il passo, la attendo.
Le chiedo dove va. A Roma.
Saliamo le scale per il suo binario.
Le chiedo quale carrozza. La 5.
Le appoggio la valigia, leggerissima, e le dico scappo a prendere il mio treno.
Lei mi ha ringraziato e in quel momento ho visto i suoi occhi.
Neri. Intensi di dolore.
Li ho penetrati in fondo e le parole che ho sentito uscirmi impetuose mi sono morte sulle labbra.

Sono corsa a prendere il mio treno e ho pensato alla forza della mia carne. Alla salute del mio pensiero.
Ho guardato una madre incinta del secondo portare da sola il passeggino fino al binario su per le scale.

Uno schiaffo forse anche due glieli avrei dati. Così, come prima reazione. E poi avrei abbracciato con forza e delicatezza quel niente di corpo.
Scema, scema avrei sentito il mio cervello gridare.
Invece mi sono limitata per un istante a entrare nei suoi occhi bui.

Quel mucchietto di ossa, io, ecco, io me lo sarei messo sulle spalle e l'avrei portato a toccare la vita.

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