venerdì 26 giugno 2015

Il giardino

Caro Francesco,

oggi non posso tacere.
Oggi sei passato attraverso il mio cuore trascinando dietro di te la carne, la pelle, i muscoli, la giacca blu di lino, le sigarette e i capelli pazzi. Sei passato attraverso il mio muscolo cardiaco lasciandomi senza fiato.
E passando ho sentito il tuo profumo, il tuo odore, la nicotina, la pelle, la stoffa dei tuoi vestiti, le scarpe riprendere consistenza e darti corpo.

Caro Francesco,

oggi ho il bisogno impellente di urlare al tuo mondo sparpagliato nell'aria di questa giornata perfetta di giugno che sei (stato) la meraviglia e lo stupore.
Queste lacrime pesanti che solcano la tua assenza non posso fermarle mentre cammino attraverso il tuo giardino segreto.
Credimi, Francesco, il tuo giardino segreto è fiorito.
La tua terra che pareva bruciata, che tu stesso hai bruciato con il fumo delle tue sigarette si nutriva in silenzio della tua arte.
I gigli, le calle, il gelsomino, i fiori di ciliegio, la quercia, i fiori tropicali, i rampicanti, la violenza dei rossi e dei viola delle bougainvillee, le rose antiche, le rose gialle, l'erba, il profumo di terra, così appare il tuo giardino, Francesco, dietro le palpebre dei miei occhi vigili.

La tua anima è dentro i miei lavori che fanno il giro del mondo e ritornano, e ripartono.
Toccano paesi di cui non conosco neppure il nome e i confini, e ritornano, ripartono, ritornano.
E tu, aggrappato ad una immagine li accompagni e li proteggi.
I miei lavori - il tuo lavoro, sia ben chiaro - vengono studiati nelle università, nei conservatori, diventano parte di tesi di lauree e esami teorici, vengono criticati, copiati, elogiati!
Oggi il tuo lavoro è stato analizzato e sviscerato da bambini di cinque anni, http://memoesperienze.comune.modena.it/lingua/pagine/lettura/stripstory/strip005.htm.
Ed io, leggendo i loro commenti, improvvisamente ho visto sbocciare i fiori della tua vita.





martedì 2 settembre 2014

voce di velluto

Avevo diciannove anni.
Ero una bambina-grande.
Con gli occhi verdi e i capelli biondi tagliati alla paggetto.
Avevo lasciato la casa familiare e la amata città della fanciullezza per studiare all'università a 400km di distanza.
L'università aveva sede in un palazzo storico dalle dimensioni contenute.
Le lezioni erano un luogo dove al massimo si stava in quaranta. In casi fortunati si seguivano lezioni con dieci studenti.
La biblioteca non era diversa, due sale, tre tavoli, poche sedie.
Mi ero iscritta all'università perché era giusto e mio dovere farlo, ma di certo il mio pensiero costante non era quello di arrivare in fretta e nel migliore dei modi alla laurea.
Io sognavo di cantare.
Studiavo canto, prendevo treni per seguire lezioni di maestri in altre città. Ascoltavo musica, opere, concerti. Mi abbeveravo e nutrivo di sogni d'esibirmi un giorno sui palcoscenici dei più importanti teatri.
Con questo spirito debole e fumoso preparavo gli esami.
Eppure mi impegnavo. Seguivo, studiavo. Ero assennata.

La prima volta in cui lo vidi era seduto in biblioteca in un pomeriggio d'inverno.
I capelli ricci scomposti lunghi fino al collo. Il porta matite di legno. Silenzioso. Concentrato.
All'inizio furono solo sguardi e sorrisi.
Non sapevo chi lui fosse, se non che mi aveva catturata.
Io così bambina. Così adulta. Così acerba. Così antica.
Furono giorni di sorrisi strappati ai libri.
E il ricordo di una ricerca strampalata nel registro delle presenze della biblioteca a cercare di risalire ad un nome, un cognome. Una vita del tutto sconosciuta che mi attirava come una tempesta di calamite.
Un giorno mi regaló una poesia.
La conservo ancora. Nonostante gli anni e le fatiche che mi hanno portata lontana, naufragata in terre e cieli disabitati.
Dopo la poesia, una passeggiata.
Ti mostro dove abito.
Vedi quella torre. Lassù, in alto, tra le bifore, aperte all'aria e a tutti i crepuscoli del mondo. Ero una principessa temeraria e fragile, dentro la mia antica tenera età.
Abbiamo iniziato ad amarci con la delicatezza dei fiori. Andavamo a scoprire le sponde del fiume e i campi di grano.
Ovunque c'erano bellezze per noi.
Una volta, in mezzo ad un campo, una coppia di anziani aveva portato con sé un tavolino da campeggio e due sedie. Giocavano serafici a carte, immersi nel giallo delle spighe e baciati dal vento.
Abbiamo pensato che quello fosse davvero l'amore.
L'amore che per noi era un'esplosione del cuore, di luce, gusti, sapori, sonnolenze, veglie, dolori e gioie.
Cantavamo assieme, a due voci, musica antica. E leggevamo libri e poesie ad alta voce abbracciati, seduti per terra appoggiati al divano.

Io questo volevo raccontare oggi.

Uno dei nostri libri preferiti era la storia malinconica di un signore che non poteva mai smettere di camminare. Un libro forse scritto per bambini ma da leggere da adulti.
Lui mi disse, dopo averlo finito,
che avrebbe desiderato un giorno che io leggessi al nostro bambino questa favola con la mia voce di velluto.

Sono passati diciannove anni, le nostre strade le abbiamo bruciate e abbandonate da moltissimo tempo.
Io non so dove lui viva e come viva e da tanti anni anche lui non sa più nulla di me.
Ma questa sera io ho terminato di leggere il nostro libro a mio figlio, con occhi velati e voce di velluto.

lunedì 6 gennaio 2014

Istante

Assordante questo battere continuo esasperante fluire dietro bulbi oculari e tempie. 
Automobili cigolano lastricano la strada di benzina.
E pensieri di odori e di ricordi di mani che vorrei fermare. Fermati. Appóggiati qui. Su questa musica scritta che parla di me a diciassette anni. Che diciassette anni non ritornano più. Se non nella voce incrinata del canto mentre canto con la voce da donna vissuta. Che donna ora, io non so cosa significhi. Non più giovane. Non vecchia. Ma davanti ad uno specchio che si deforma di silenzi di fumo di carne di risate. 
Ferma la tua mano qui sul tavolo ghiacciato. E i pensieri che l'afferrano, la mano di ossa e pelle e odore. I pensieri che baciano, succhiano, curano. 
Pensieri che hanno già perduto forza e voce. E l'istante è già quel momento perduto passato arreso.
Il tempo di un sorriso scolorito. Quei diciassette anni che non voglio ricordare, che erano silenzio e urla e pianti e nebbia.
Ferma la tua mano perché io possa appoggiarla qui. Su un muscolo minuscolo senza nome del mio corpo. Sentire che di peso e di arterie sei fatto. Ché il tuo peso assomigli a qualcosa che è caduto tra i miei piedi. Rotolato sgomento iridescente svanito perduto.
E lascia solo rumore assordante. Come una foresta. Come muschio. Come bellezza.

mercoledì 24 luglio 2013

Con quegli occhi

Ecco. Io ho appena fatto una cosa che non potevo proprio tirarmi indietro.
Però le avrei dato uno schiaffone e poi portata a casa per curarla.
Con quegli occhi.

In stazione Principe.
Lei vestita di nero si guarda intorno smarrita in cima alle scale che portano ai binari.
Mi avvicino per scendere carica di borsa e zaino.
Ha qualche centimetro di braccio scoperto. Ha la circonferenza di un grissino. Bianco secco fragilissimo.
La vita spigolosa potrebbe misurare quanto due mele accostate.
I vestiti le pendono addosso e nascondono lo spettacolo impressionante delle gambe.
Accanto a sé una valigia rossa.
E rimane lì inquieta a guardare chi scende.
Poche persone, solo donne.
Ho capito.
Mi avvicino le sorrido e prendo la sua valigia precedendola sulle scale.
Mi segue docile e lenta.
Rallento il passo, la attendo.
Le chiedo dove va. A Roma.
Saliamo le scale per il suo binario.
Le chiedo quale carrozza. La 5.
Le appoggio la valigia, leggerissima, e le dico scappo a prendere il mio treno.
Lei mi ha ringraziato e in quel momento ho visto i suoi occhi.
Neri. Intensi di dolore.
Li ho penetrati in fondo e le parole che ho sentito uscirmi impetuose mi sono morte sulle labbra.

Sono corsa a prendere il mio treno e ho pensato alla forza della mia carne. Alla salute del mio pensiero.
Ho guardato una madre incinta del secondo portare da sola il passeggino fino al binario su per le scale.

Uno schiaffo forse anche due glieli avrei dati. Così, come prima reazione. E poi avrei abbracciato con forza e delicatezza quel niente di corpo.
Scema, scema avrei sentito il mio cervello gridare.
Invece mi sono limitata per un istante a entrare nei suoi occhi bui.

Quel mucchietto di ossa, io, ecco, io me lo sarei messo sulle spalle e l'avrei portato a toccare la vita.

martedì 25 giugno 2013

Una vita normale

E che sognare una vita normale è una cosa che non posso.
Che sono a Roma da un mese esatto e non ho mai passato una sera da sola. Non perché abbia una vita mondana. Anzi. Ho avuto sempre prove la sera. Che era una tortura perché iniziavano alle sette e finivano alle undici, a mezzanotte. E per cenare è stato sempre un casino. Che alle sei uscivo e compravo un pezzo di pizza o una pasta fredda con le posate di plastica. E cenare per un mese così è una cosa che nuove gravemente alla salute. E mai una verdura vera. Viva. Tipo un limone senza pesticidi. Per dire. Che poi magari mangiavo in camerino da sola, che tristezza, ma non ero mai sola, che con uno spinacio tra i denti poi dovevo ricominciare le prove e cantare sputando pezzi di olive e mais a destra e a manca. Per dire.
Domani mi taglierò i capelli un centimetro, mi farò tatuare farfalle e conigli. E dipingerò le unghie blu, smetterò di lavarmi e biascicherò biggebabbol giallo fosforescenti.
Che io una vita normale. No. Me la sogno.

domenica 23 giugno 2013

Lacrime

C'era questa luna gialla enorme che giocava a nascondino tra le arcate del Colosseo.
E le mie lacrime silenziose in fila indiana sul solco appena percepibile di trucco sciolto delle guance.
E le mie spalle curve sotto il peso di questo silenzio.
E di questo frastuono.
Di gente. Di urla. Di risate.
Mi sono rintanata sotto la metropolitana.
La stessa in cui tre giorni fa una donna ha deciso di morire.
Dentro il convoglio solo uomini. Distratti. Assenti.
E questa danza rituale sul mio viso.
Di scintille distillate. I miei occhi liquidi rivolti ai piedi di questi uomini.
Che potrei raccontare la vita di ciascuno di loro. Dalla forma, dall'usura delle scarpe.
Sentire addosso, lieve, curioso, lo sguardo di qualcuno di loro.
Che hanno visto formarsi una stalattite di lacrime sotto al mento. Ed io immobile, ad assorbire gocce dalle labbra. E gli occhi bassi. Le spalle curve. Il frastuono addosso.
Alla mia fermata mi sono alzata di scatto, rompendo la bolla magica in cui mi ero rinchiusa.
I miei passi rimbombavano nella testa, prima che sul pavimento. Un automa che conosce la strada. I pensieri volati via.
Con il dorso della mano, brusco, ho asciugato il mento. Leccato le labbra. Alzato lo sguardo.
Gatta ferita. Ho bisogno di leccare leccare leccare ogni punto di dolore.
Domani sarò nuova. Con l'oro riempiró tutti i pezzi rotti di me. Prezioso è questo dolore che mi manda alla deriva. Più preziosa la mia forza che lo ricucirà. Come sempre. Come sempre.

venerdì 15 marzo 2013

Un guscio vuoto

La serratura non sembrava collaborare.
E noi sul pianerottolo ci siamo scambiati uno sguardo rapido.
Daniele ha riprovato. La chiave ha girato.
Ha aperto con cautela la porta e dietro, la luce, ha spalancato dall'interno un cielo di questa Milano tutto terso che ha gonfiato i miei polmoni.
Ho allentato l'apnea.
Siamo entrati.

Il bagno, la camera da letto, la cucina e infine lo studio.
Ordine e quiete.

Chissà cosa credevo di trovare.
Tracce sparse, residui visibili di lotte interiori.

Invece tutto era a posto, così come ho sempre visto casa tua.
I libri impolverati, impilati accanto ad alcune cartoline.
Le persiane aperte e squarci di primavera entrare sfacciati.

Potevi essere appena uscito.
A comprare qualcosa da mangiare. Dei limoni. Un salmone.

Un giorno di luglio di qualche anno fa, sornione, avevi dettato una ricetta intrigante a tavola a me e mia madre, che ti ascoltavamo ammaliate.
Questo sapevi fare bene: stregare con il tuo tono di voce basso, al limite dell'udibile.
E lo sguardo schivo, nascosto sotto i tuoi capelli pazzi.
Capelli che a toccarli sembrava di accarezzare il pelo di un animaletto. Un coniglio, un gattino appena nato.

La sigaretta e le fisherman parevano essere parte di te. Non c'era un, ti dispiace se fumo.
C'eri tu e c'era il fumo.

Lavorare con te era silenzio e rispetto.
Sapevi ascoltare.
Spegnevi in fretta le mie ansie, i miei scalpitii.
Con te tutto prendeva una dimensione lenta.

Eppoi l'ironia.
Una battuta inaspettata, buttata a caso.
E le risate che ci avvolgevano per un istante.

Questi pensieri mi abbracciavano mentre prendevo possesso del tuo spazio vuoto.
Daniele ha acceso il tuo computer e cercato i file dei nostri lavori.
Una cartella dal titolo Laura.
Data di pubblicazione: 9 febbraio 2013.

L'ultima traccia di lavoro che hai realizzato prima di sparire.

Penso al dolore che hai avuto. Alla fatica che hai fatto a realizzare i video che ti chiedevo dall'Austria, poi dall'Italia. Io spaventata per i tuoi silenzi. Spaventata per le tue parole - non credo di poter realizzare questo spettacolo con te. Sarà difficile. Ti preparo il materiale e te lo mando.

Hai lasciato una casa in ordine, hai lasciato il cellulare, i soldi, le carte.
Hai lasciato scritto che saresti andato fuori Milano a morire.

Credevo di piangere, entrando a casa tua.
Pensavo di struggermi di angoscia.

(Invece eccoti, eri sceso a gettare la spazzatura.
Sei apparso sulla porta. E con il tuo sorriso stralunato sei entrato, hai tolto le scarpe e la tua voce bassa mi ha salutata e poi abbracciata con amore.)


Ciao Francesco.
Ritorna presto, se puoi.