martedì 2 settembre 2014

voce di velluto

Avevo diciannove anni.
Ero una bambina-grande.
Con gli occhi verdi e i capelli biondi tagliati alla paggetto.
Avevo lasciato la casa familiare e la amata città della fanciullezza per studiare all'università a 400km di distanza.
L'università aveva sede in un palazzo storico dalle dimensioni contenute.
Le lezioni erano un luogo dove al massimo si stava in quaranta. In casi fortunati si seguivano lezioni con dieci studenti.
La biblioteca non era diversa, due sale, tre tavoli, poche sedie.
Mi ero iscritta all'università perché era giusto e mio dovere farlo, ma di certo il mio pensiero costante non era quello di arrivare in fretta e nel migliore dei modi alla laurea.
Io sognavo di cantare.
Studiavo canto, prendevo treni per seguire lezioni di maestri in altre città. Ascoltavo musica, opere, concerti. Mi abbeveravo e nutrivo di sogni d'esibirmi un giorno sui palcoscenici dei più importanti teatri.
Con questo spirito debole e fumoso preparavo gli esami.
Eppure mi impegnavo. Seguivo, studiavo. Ero assennata.

La prima volta in cui lo vidi era seduto in biblioteca in un pomeriggio d'inverno.
I capelli ricci scomposti lunghi fino al collo. Il porta matite di legno. Silenzioso. Concentrato.
All'inizio furono solo sguardi e sorrisi.
Non sapevo chi lui fosse, se non che mi aveva catturata.
Io così bambina. Così adulta. Così acerba. Così antica.
Furono giorni di sorrisi strappati ai libri.
E il ricordo di una ricerca strampalata nel registro delle presenze della biblioteca a cercare di risalire ad un nome, un cognome. Una vita del tutto sconosciuta che mi attirava come una tempesta di calamite.
Un giorno mi regaló una poesia.
La conservo ancora. Nonostante gli anni e le fatiche che mi hanno portata lontana, naufragata in terre e cieli disabitati.
Dopo la poesia, una passeggiata.
Ti mostro dove abito.
Vedi quella torre. Lassù, in alto, tra le bifore, aperte all'aria e a tutti i crepuscoli del mondo. Ero una principessa temeraria e fragile, dentro la mia antica tenera età.
Abbiamo iniziato ad amarci con la delicatezza dei fiori. Andavamo a scoprire le sponde del fiume e i campi di grano.
Ovunque c'erano bellezze per noi.
Una volta, in mezzo ad un campo, una coppia di anziani aveva portato con sé un tavolino da campeggio e due sedie. Giocavano serafici a carte, immersi nel giallo delle spighe e baciati dal vento.
Abbiamo pensato che quello fosse davvero l'amore.
L'amore che per noi era un'esplosione del cuore, di luce, gusti, sapori, sonnolenze, veglie, dolori e gioie.
Cantavamo assieme, a due voci, musica antica. E leggevamo libri e poesie ad alta voce abbracciati, seduti per terra appoggiati al divano.

Io questo volevo raccontare oggi.

Uno dei nostri libri preferiti era la storia malinconica di un signore che non poteva mai smettere di camminare. Un libro forse scritto per bambini ma da leggere da adulti.
Lui mi disse, dopo averlo finito,
che avrebbe desiderato un giorno che io leggessi al nostro bambino questa favola con la mia voce di velluto.

Sono passati diciannove anni, le nostre strade le abbiamo bruciate e abbandonate da moltissimo tempo.
Io non so dove lui viva e come viva e da tanti anni anche lui non sa più nulla di me.
Ma questa sera io ho terminato di leggere il nostro libro a mio figlio, con occhi velati e voce di velluto.

2 commenti:

  1. Laura, Laura, hai scritto una poesia e io mi sono infinitamente commossa, è davvero bello che tu abbia letto quel libro al tuo bimbo, un abbraccio grande amica mia!

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